I disturbi alimentari sono definiti nell’ultima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico Dei Disturbi Mentali DSM 5 «Disturbi della nutrizione e della alimentazione» e si presentano distinti in sei categorie diagnostiche principali:
- Pica
- Mericismo
- Disturbo alimentare evitante/restrittivo
- Anoressia nervosa
- Bulimia nervosa
- Disturbo di alimentazione incontrollata.
Oltre alle precedenti si individuano due categorie residue:
- Disturbo della nutrizione o della alimentazione specificato: si tratta di casi sottosoglia dell’anoressia, della bulimia, del disturbo da alimentazione incontrollata oltre al disturbo con condotte di eliminazione e sindrome del mangiare di notte.
- Disturbo della nutrizione o della alimentazione non specificato, ossia un disturbo dell’alimentazione in cui mancano delle informazioni per specificarne le caratteristiche.
L’eziopatogenesi dei disturbi della nutrizione e della alimentazione è di tipo multifattoriale. Essi sono il risultato dell’interazione di fattori predisponenti (genetici, psicologici, ambientali e socioculturali), fattori precipitanti (diete restrittive e difficoltà psicologiche personali) e fattori di mantenimento (sindrome da digiuno e il rinforzo positivo dall’ambiente).
Messaggio pubblicitarioL’inquadramento diagnostico dei disturbi della nutrizione e della alimentazione si attua a livello ambulatoriale e prevede che il paziente venga valutato a livello clinico, nutrizionale e psicologico. Si tratta di condizioni cliniche che presentano elevata comorbilità clinica e psichiatrica che deve essere indagata.
La valutazione internista comprende dunque la valutazione clinica – anamnestica, nutrizionale, della condotta alimentare e della spesa energetica. Nel corso della valutazione clinico-anamnestica dei disturbi della nutrizione e della alimentazione ci si occupa di eseguire un’attenta raccolta anamnestica unitamente all’esame obiettivo e alla prescrizione di una serie di esami tra cui l’esame delle urine, l’emocromo completo, la glicemia, il test per la funzionalità epatica, l’assetto lipidico, la creatininemia, l’azotemia, il BMI.
Spesso l’osservazione clinica è preceduta da una storia di malattia molto lunga e questo complica notevolmente il processo di guarigione. Se eseguita correttamente, la diagnosi di disturbi della nutrizione e della alimentazione, consente di escludere altre patologie che possono avere effetti secondari sulla relazione con il cibo, come disfagie, spasmi esofagei e pilorici, dispepsie, patologie tumorali, malattie infettive, da uso di sostanze e altre patologie psichiatriche caratterizzate da iperfagia o ipofagia.
Fattori di rischio e mantenimento dei disturbi alimentari
Grogan (2008) ha definito l’immagine corporea come quell’insieme di percezioni, pensieri ed emozioni che una persona esperisce riguardo al suo corpo. Ma non sempre tali percezioni sul proprio corpo hanno un’accezione positiva, né tantomeno coincidono con la forma corporea ideale a livello soggettivo: si parla in tal senso di insoddisfazione per l’immagine corporea. Tale insoddisfazione rappresenta uno dei maggiori fattori di rischio e di mantenimento dei disturbi legati all’immagine corporea e all’alimentazione (Thompson et al., 1999).
La magrezza è uno strumento attraverso il quale le pazienti anoressiche e bulimiche riescono, allo stesso tempo, a evitare e a giocare, in un campo più ristretto e controllabile, il gioco della vita; il gioco della ricerca e della realizzazione di sé nei vari ambiti in cui le nostre ambizioni e le circostanze ci sfidano, a cominciare dall’amore e dal lavoro. Di fronte alla complessità della sfida, le pazienti con disturbi alimentari si ritraggono impaurite e concentrano tutte le loro energie sul controllo dell’aspetto corporeo e dell’alimentazione. Così l’aspetto corporeo, da mezzo che utilizziamo per vivere, comunicare, presentarci al mondo, diventa uno scopo, un fine in sé.
Secondo la prospettiva transdiagnostica di Fairburn i Disturbi dell’Alimentazione (DA) o Disturbi Alimentari condividerebbero il medesimo nucleo psicopatologico: un’ eccessiva importanza attribuita al peso, alla forma del corpo e al controllo dell’alimentazione. Studi longitudinali evidenziano l’instabilità diagnostica dei Disturbi dell’Alimentazione e la loro migrazione da una categoria all’altra, suggerendo che le categorie diagnostiche dei Disturbi Alimentari nel DSM-5 non descrivano adeguatamente la realtà clinica. In tale prospettiva i Disturbi Alimentari vengono considerati come un’unica categoria, mantenuta da meccanismi comuni quali bassa autostima e perfezionismo (Fairburn et al., 2003). Altri studi (Sassaroli et al., 2007; Sassaroli, Gallucci e Ruggiero, 2008) hanno evidenziato come anche il rimuginio e il controllo costituiscano importanti fattori di mantenimento per i Disturbi dell’Alimentazione. In particolare, i soggetti con Disturbi dell’Alimentazione mostrerebbero una maggiore tendenza a preoccuparsi per gli errori (perfezionismo patologico), un minor senso di autostima, misure più elevate di rimuginio ed una scarsa percezione di controllo sugli eventi esterni e sugli stati emotivi interni, rispetto ai soggetti non patologici.
Evidenze cliniche e sperimentali supportano l’ipotesi in base alla quale il criticismo percepito è un fattore di rischio per lo sviluppo del perfezionismo clinico nei disturbi alimentari. Il criticismo genitoriale consiste nell’essere costantemente soggetto a critiche da parte di altri considerati significativi, importanti per la persona (Frost et al. , 1991; Huprich, 2003).
Dati recenti confermano l’ipotesi secondo la quale il criticismo percepito precede il perfezionismo maladattivo nel processo psicologico, portando alla formazione del controllo ossessivo del peso e della forma fisica nella mente delle persone affette da disturbo alimentare. In questo caso, è possibile immaginare il perfezionismo maladattivo come una sorta di reazione all’estremo dolore provocato dalle critiche recepite, che a loro volta hanno stimolato, in individui poveri di risorse cognitive e di un sostrato familiare adeguato, lo sviluppo di un controllo o di un discontrollo sul cibo, sulla forma fisica e sulla fatuità del proprio essere. È possibile inferire che il criticismo percepito possa essere il fattore razionale che facilita la trasmissione transgenerazionale del perfezionismo in soggetti con disturbo alimentare.
Diversamente dal perfezionismo patologico o dalla bassa autostima, il controllo si presenta non come un problema, bensì come una soluzione. Nel caso dei disturbi alimentari il controllo si esprime nel controllo del peso, del cibo e dell’aspetto corporeo attraverso la dieta, ed è rinforzato positivamente dalla sensazione di successo che si sperimenta quando si riesce a rispettarla, e negativamente dal timore di ingrassare. Il risultato è che, con l’intensificarsi della dieta, il peso decresce sempre più e il processo si autoperpetua. È per questo motivo che il bisogno di controllo nei disturbi alimentari diventa una necessità compulsiva, un vero e proprio obbligo.
Nei disturbi alimentari i pazienti soffrono una necessità generale di controllo che, prima dell’esordio, tentano probabilmente di esprimersi su aspetti più complessi e potenzialmente gratificanti della vita, quali la realizzazione nello studio, nel lavoro, nel tempo libero, nelle relazioni o nell’affettività. Ma questi ambiti si rivelano ben presto troppo complessi e incontrollabili.
Soggetti con disturbi alimentari sentono di non essere capaci di controllare i rapporti personali, le reazioni interne e gli eventi in generale. Per ottenere la percezione del controllo e raggiungere un certo grado di prevedibilità, sono disposti a confinare le loro vite entro un’esperienza ridotta, circoscritta all’alimentazione e alle dimensioni corporee. Tuttavia, sebbene la gestione dell’alimentazione e delle dimensioni corporee offra in un primo momento l’attrattiva di una qualche possibilità di controllo, alla fine li condanna a un’esistenza isolata e insana (Button 1985; 2005). Per Dalle Grave (2001) la tendenza al controllo si focalizza sull’alimentazione perché fornisce una prova evidente e immediata di capacità di autocontrollo, perché ha un potente effetto manipolatorio sugli altri e in particolare sui familiari.
L’anoressia nervosa
Nell’ultima versione del DSM vengono confermati i criteri diagnostici per l’anoressia nervosa che erano già presenti nelle versioni precedenti: la restrizione nell’assunzione di calorie ed il peso corporeo significativamente basso (cioè sotto l’85% del peso previsto); l’intensa paura di ingrassare; l’alterazione della rappresentazione mentale del proprio corpo, la quale porta ad una costante sensazione di essere sovrappeso. A differenza della precedente edizione del DSM, l’amenorrea (assenza di mestruazioni) non rappresenta più fondamentale per porre diagnosi di Anoressia nervosa.
L’ anoressia nervosa può presentarsi accompagnata da abbuffate e/o condotte di eliminazione (vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, diuretici o enteroclismi), in tal caso si parla di anoressia di tipo 2.
Le abbuffate consistono nel consumare abbondanti quantità di cibo, preferibilmente a elevato contenuto calorico e sono di solito accompagnati da atteggiamenti compensatori (per esempio, vomito autoindotto). Il sottotipo 2 infatti controlla il peso non solo attraverso la restrizione alimentare, ma anche attraverso condotte compensatorie di tipo bulimico: vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, diuretici o enteroclismi. Spesso le pazienti del sottotipo 2 presentano un sottopeso meno grave rispetto al sottotipo 1 spesso, pesano di più prima dell’insorgenza del disturbo e hanno più frequentemente parenti sovrappeso o obesi in famiglia.
La bulimia nervosa
La Bulimia nervosa è caratterizzata da abbuffate e inappropriate condotte compensatorie, almeno 1 volta alla settimana e per 3 mesi. Il DSM-5 definisce un episodio di abbuffata come l’ingestione di una quantità di cibo significativamente superiore a quella che la maggior parte degli individui assumerebbe nello stesso tempo ed in circostanze simili, caratterizzato dalla sensazione di perdere il controllo durante l’abbuffata. Le “inappropriate condotte compensatorie”, utilizzate per prevenire l’aumento di peso a seguito di un episodio di abbuffata, consistono ad esempio nel vomito autoindotto; nell’abuso di farmaci (quali lassativi e diuretici); nel digiuno o nell’attività fisica eccessiva. Il criterio diagnostico comune all’ Anoressia nervosa è l’eccessiva influenza del peso e della forma corporei sui livelli di autostima dell’individuo.
Anche la bulimia, come l’anoressia, presenta due sottogruppi distinti dall’uso, o meno, delle condotte di eliminazione (vomito autoindotto o abuso di lassativi o diuretici). Il secondo sottogruppo non ne fa uso, e queste pazienti tentano di controllare il peso attraverso l’esercizio fisico o mangiando poco o addirittura digiunando. Questo sottogruppo, insieme all’anoressia di tipo 2 (quella con abbuffate/condotte di eliminazione), costituisce una categoria-ponte tra anoressia e bulimia, tanto da sollevare il dibattito su anoressia e bulimia come continuum o come due entità discrete.
Molte persone che hanno crisi di abbuffate compulsive esercitano costantemente un intenso sforzo su se stesse per seguire la ferrea dieta che si sono imposte. La persona pensa di dover seguire le regole alla lettera e sperimenta un senso di fallimento ogni volta che mangia di più rispetto a ciò che le regole permettono.
Questo tipo di regime alimentare severo genera, inevitabilmente, ripetuti fallimenti, i quali innescano nella persona una intensa demoralizzazione ed una dolorosa auto-critica, che spesso sfocia nell’abbuffata.
In molti casi, inoltre, la crisi bulimica è seguita da disfunzionali comportamenti di compensazione quali vomito auto-indotto, uso improprio di lassativi e diuretici (purging), oppure da digiuno o esercizio fisico eccessivo finalizzato a compensare le calorie ingerite durante l’abbuffata.
A sostenere questa reazione di fronte alla rottura delle regole dietetiche è uno stile di pensiero caratteristico di molte persone che soffrono di Bulimia Nervosa, definito pensiero tutto o nulla.
Il binge eating disorder (BED)
Si tratta di una condizione di grave sovrappeso o obesità (IMC uguale o superiore a 30), causato da fattori psicologici in assenza di cause mediche o genetiche.
Entrato a far parte dei Disturbi della nutrizione e della alimentazione solo nel DSM-5, il Disturbo da Binge-eating è caratterizzato da abbuffate almeno 1 volta alla settimana per 3 mesi, non seguite da condotte di eliminazione o di controllo del peso di alcun tipo. Un’altra differenza con la Bulimia nervosa è rappresentata dal minore interesse mostrato nei confronti del peso e della forma del corpo. L’assenza di controllo del peso sbilancia questo disturbo tutto sul versante dell’impulsività alimentare, rendendolo in qualche modo diverso dagli altri disturbi alimentari.
Gli episodi di abbuffate compulsive sono associati ad almeno tre dei seguenti caratteri:
Mangiare molto più rapidamente del normale;
Mangiare fino ad avere una sensazione dolorosa;
Mangiare grandi quantità di cibo pur non sentendo fame;
Mangiare in solitudine a causa dell imbarazzo per le quantità di cibo ingerite;
Provare disgusto di sé, intensa colpa o disagio dopo aver mangiato troppo.
L’obesità causata dall’alimentazione incontrollata ha spesso una funzione: per alcuni è un mezzo di difesa, un muro oltre il quale è difficile andare, rappresenta quindi una sorta di barriera protettiva per il soggetto, che si sente così più al riparo dagli altri. Spesso un corpo grasso e poco attraente viene, infatti, evitato, mettendo al riparo la persona da aspetti legati alla sfera relazionale e sessuale.
Messaggio pubblicitarioIn altri casi il cibo viene usato per colmare un vuoto, per riempirsi e sentire di esistere, attraverso di esso ci si può finalmente sentire “una persona di peso” che ha una posizione e un ruolo, che grazie alla sua massa enorme finalmente viene vista dagli altri. Ancora, il cibo può essere usato come strumento di autoaggressione, di punizione: l’iperalimentazione suscita fantasie distruttive, si mangia fino a voler scoppiare e stare male.
A prescindere dalla funzione che il “grasso” ricopre, di solito chi soffre di questo tipo di disturbo si definisce “perdente” e non ha stima di sé, all’interno della propria famiglia è etichettato e si percepisce come fallito e succube, davanti alle sfide della vita preferisce scegliere la resa, le emozioni che lo caratterizzano sono la vergogna e l’inadeguatezza (Ugazio, 2012).
La letteratura esistente ha ben evidenziato, con riferimento al mantenimento dell‘obesità, l’associazione tra emozioni negative ed episodi di abbuffate compulsive. Il modello della regolazione emotiva postula che questa associazione rappresenta una relazione funzionale in cui l’episodio di binge eating è innescato da alti livelli di emozioni negative e, al tempo stesso, ha la funzione di mitigarne gli effetti.
L’abbuffata compulsiva è la strategia principalmente utilizzata nella riduzione e regolazione degli stati emotivi non desiderabili, in particolare sembrerebbe funzionale ad evitare o ridurre sensi di colpa nel breve periodo, piuttosto che emozioni di paura, ostilità o tristezza (Berge et al., 2015).
Usare il cibo per gestire uno stato emotivo può produrre nell’immediato un senso di benessere e rilassamento ma, se applicato con regolarità può condurre ad un abbassamento del livello di benessere psicofisico, dovuto in parte alla scarsità ed esiguità nella scelta degli stimoli gratificanti e dall’altro al non riconoscimento di stati emotivi come ad esempio ansia, tristezza e nervosismo a cui far corrispondere una risposta più adeguata del cibo alla risoluzione di eventuali problemi (Della Grave et al., 2013).
Un locus of control interno, in cui predomina la percezione che la propria vita sia regolata da qualcosa al di fuori del proprio controllo potrebbe portare a credere di non avere le risorse per controllare gli stimoli ambientali e per gestire stati emotivi negativi, che pertanto potrebbero essere vissuti come intollerabili (Montesi et al., 2016).
Tra i fattori di mantenimento dell’obesità troviamo la sensibilità al cibo. Tutti gli individui reagiscono allo stesso modo di fronte a stimoli gustosi ma ciò che può variare è la sensibilità al potere gratificante del cibo (Beaver J. D. et al., 2006). Soggetti con una accresciuta sensibilità esterna al cibo (external food senitivity) presentano livelli ridotti di interazioni dinamiche tra i network responsabili dell’alimentazione. La sola vista di cibo appetitoso può indurre in questi individui un maggior incremento dei livelli soggettivi di fame anche in assenza dei relativi segnali omeostatici interni (Passamonti et al., 2009).
Nel comprendere i meccanismi che favoriscono il mantenimento dell’obesità, le condotte alimentari disinibite e maggiori craving di cibo potrebbero essere spiegati anche da deficit a livello di funzioni esecutive (Spinella et al., 2004), un complesso sistema di competenze cruciali nella organizzazione, pianificazione ed integrazione di diversi processi cognitivi. Le funzioni esecutive sono implicate nella capacità di regolazione dei comportamenti impulsivi. Se è presente un deficit a questo livello, il processo decisionale potrebbe essere maggiormente influenzato da vantaggi diretti -cibo appetitoso – piuttosto che dai benefici legati al raggiungimento di obiettivi a lungo termine – non accumulare ulteriore peso – (Duchesne M. et al., 2010).
Una chiave di lettura per questo processo potrebbe essere individuata nella sensibilità alla ricompensa, per cui i comportamenti sarebbero motivati da stimoli in grado di produrre un appagamento immediato. È infatti emersa una più spiccata tendenza dei soggetti con obesità e sovrappeso a scelte rischiose, dimostrando di essere maggiormente inclini a tollerare un minor valore di ricompensa (e quindi un rischio più alto) a patto che questa sia immediata, a fronte di una ricompensa maggiore ma posticipata (Navas J. F. et al., 2016).
Il mangiare eccessivamente quindi non sarebbe l’unico fattore di mantenimento dell’obesità e non rappresenterebbe esclusivamente una risposta passiva ad un ambiente ricco di stimoli e ad una forte attivazione fisiologica (Duchesne M. et al., 2010), ma sarebbe anche correlato alla incapacità di posticipare la gratificazione immediata, a cui si aggiungono difficoltà di pianificazione, problem solving e una minore flessibilità cognitiva (Boeka A.T et al., 2008).
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