Cosa è la Mindfulness
Nel buddhismo, la parola in pāli sati (sanscrito smṛti), in occidente reso anche con la parola inglese mindfulness significa “consapevolezza, attenzione consapevole, studio attento”, ed indica una facoltà spirituale o psicologica (indriya) che costituisce una parte essenziale della pratica buddista. È il primo dei Sette Fattori dell’illuminazione. La “retta consapevolezza” (pali: sammā-sati, sanscrito samyak-smṛti), o “retta presenza mentale, retta concentrazione”, è il settimo elemento del Nobile Ottuplice Sentiero, il quale costituisce l’ultima delle Quattro Nobili Verità esposte dal Buddha.
La meditazione buddhista incentrata sul sati è la vipassana.
Mindfulness quindi è la traduzione inglese di sati e la traduzione più vicina al vero significato è: “consapevolezza che emerge attraverso il prestare attenzione allo svolgersi dell’esperienza momento per momento con intenzione, nel presente ed in modo non giudicante”.
Il Prof. Jon Kabat Zinn alla fine degli anni ’70 presso l’Università di Worcester (Boston) Massachusetts ha sviluppato Il protocollo MBSR mindfulness based stress reduction (Metodo per la riduzione dello Stress basato sulla consapevolezza).
Il protocollo MBSR (Metodo per la riduzione dello Stress basato sulla consapevolezza) si rivolge a tutti nella prospettiva di conservare il wellness e di aumentare la resilienza per poter affrontare nella maniera migliore gli inevitabili stadi della vita.
Si é rivelato inoltre utile nella gestione di patologie quali: cancro, aids, problemi cardiaci, dolori cronici oltre che nei disturbi con componente psicosomatica, come ad esempio: ipertensione, colite, asma, psoriasi, disturbi del sonno, difficoltà di memoria e concentrazione, stress.
Successivamente, é stato applicato ai disturbi psicosomatici, psichiatrici, d’ansia (attacchi di panico, disturbi ossessivi), alimentari e dell’umore. L’MBCT (Mindfulness Based Cognitive Therapy) ha dimostrato la sua efficacia anche nel trattamento della prevenzione delle ricadute depressive e con la DBT (Terapia Dialettico-Comportamentale) nei pazienti borderline.
Negli Stati Uniti i reparti di Mindfulness sono di supporto a molti reparti clinici dove vengono curate patologie oncologiche, psicosomatiche o psichiatriche.
Riferimenti scientifici
la Mindfulness è una tecnica efficace nei seguenti ambiti:
Ansia (Kabat-Zinn et al. 1992; Miller et al. 1995; Baer, 2003; Ma & Teasdale 2004; Vujanovic, et al. 2007; Coelho et al. 2007; Kingston et al. 2007; Toneatto & Nguyen, 2007; Hoffman et al. 2010; Lawson, 2011; Vollestad et al. 2011);
Ansia sociale (Koszycki, Benger, Shlik, e Bradwejn, 2007; Goldin, Ramel, et al., 2009; Jazaieri, Goldin, Werner, Ziv, e Gross, 2012; Goldin, Ziv, Jazaieri, Hahn, e Gross, 2013);
Depressione cronica (Teasdale, Segal, Williams, et al., 2000);
Insonnia primaria (Gross et al, 2011; Ong et al., 2008, 2009, 2010);
Insonnia associata a diversi disturbi medici o psichiatrici (Winbush, Gross, Kreitzer, 2007; Lundh, 2005; Carlson, Garland 2005);
Stress (Shapiro et al., 2011; Nyklícek et al., 2013; Rosenkranz et al., 2013);
Dolore cronico (Kabat-Zinn, 1982; McCracken, 2006; Rosenzweig, 2010; Zeidan et al., 2011);
Dolore cronico muscolo scheletrico (Margaret Plews-Ogan, 2005);
Dolore indotto sperimentalmente (Zeidan et al., 2011, 2010);
Dolore nella sclerosi multipla (Mills & Allen, 2000);
Dolore nella fibromialgia (Creamer et al. 2000; Astin et al.2003);
Psoriasi (Bernhard et al., 1988; Kabat-Zinn et al., 1998).
I lavori scientifici pubblicati negli ultimi anni sono aumentati notevolmente.
Mindfulness scientific research
La mindfulness come strategia di regolazione emotiva nell’elaborazione top-down e bottom-up
“Se le porte della percezione fossero purificate, tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è: infinito.” (William Blake)
Mindfulness
Per spiegare in poche parole cosa sia la mindfulness, facciamo riferimento alla capacità umana di essere svegli, pienamente presenti alla vita.
E con la parola ‘presenza’ indichiamo semplicemente una sintonizzazione con l’esperienza, un modo immediato (senza mediazione) e meno meccanico possibile di essere nel momento.
La Mindfulness – ricontestualizzata in ambito occidentale per fini terapeutici e di benessere, in modo laico, pragmatico, calato nella nostra realtà quotidiana – affonda le sue radici nella meditazione di consapevolezza, pratica Buddista della tradizione Theravada, descritta nel sutra “Il grande discorso della presenza mentale” del Buddha.
Traduzione inglese della parola sanscrita smirti, Mindfulness significa “presenza mentale, nuda attenzione. Significa anche “ricordo”. Si riferisce quindi all’esperienza di risvegliarsi al presente, a un ricordarsi di essere qui ed ora.
Ulteriore sfumatura della parola smirti, ci viene offerta da Corrado Pensa (A.Me.Co., Roma) il quale sottolinea come dalla radice “smr” derivi anche la parola “smarana” che significa amore, un risvegliarsi con amore alla vita.
Dunque mindfulness come presenza mentale amorevole.
Possiamo provare a definirla come l’esperienza mentale che scaturisce nel momento in cui la nostra intenzione indirizza e sostiene l’attenzione con una particolare attitudine – inclusiva, accogliente, partecipe (potremmo dire una calda attenzione) e nello stesso tempo equanime – verso ciò che incontriamo momento per momento, dentro e fuori di noi.
Ed anche dire che qualifica la mente nella sua funzione di pura conoscenza, di contatto immediato, non orientata a scopi, il cui focus è il permettere al presente di essere com’è e di permettere a noi di essere, semplicemente, in questo presente”.
E’ utile chiarire (con Shauna L. e Carlson L. in L’arte e la Scienza della mindfulness) che con la parola Mindfulness intendiamo sia un processo (pratica di consapevolezza) sia un traguardo (la consapevolezza stessa)
In The Heart of Buddhist Meditation, lo studioso e monaco buddhista Nyanaponika Thera scrive:
La mindfulness, quindi, è la chiave infallibile per conoscere la mente ed è sia il punto di partenza, cioè lo strumento perfetto per affinare la mente, sia l’elemento sul quale focalizzarsi, ovvero la gentile manifestazione della libertà raggiunta dalla mente stessa ed è anche il punto di arrivo o culminante (come citato da J. Kabat- Zinn, 2005, p. 108).
La pratica di mindfulness, usando la definizione di Jon Kabat-Zinn consiste semplicemente nel trovare il modo di fermarsi ed essere presenti a se stessi prestando attenzione in modo intenzionale, momento per momento, allo svolgersi dell’esperienza interna ed esterna senza giudizio.
In questo modo quello che facciamo – iniziando dal focalizzare l’attenzione su un oggetto interno, le sensazioni fisiche dovute al processo del respiro, per esempio, fino ad aprirla completamente ad accogliere tutto ciò che sorge e se ne va – è portare la nostra mente ad essere “sveglia ed incarnata” nel qui ed ora, unico luogo ove avviene l’esperienza, a potersi rapidamente accorgere ogni volta che si distrae, a notare da cosa è stata catturata e, con gentilezza, sollecitudine e senza giudizio a tornare all’esperienza presente.
Contemporaneamente alleniamo anche il nostro cuore a essere aperto, caldo e accogliente di fronte a qualunque fenomeno attraversi le nostre esistenze, che si tratti di un’esperienza gioiosa, triste, ansiogena, fastidiosa, o anche neutra, senza attaccamento e senza avversione. Come dice J.Kabat Zinn: “ There is no mindfulness without heartfulness”.
Allora ben presto ci possiamo rendere conto che ciò che realizziamo con la pratica di mindfulness non è cambiare i contenuti della nostra mente, piacevoli, spiacevoli o neutri che siano, ma la relazione che la mente ha con i suoi contenuti.
Non essere più in relazione con la realtà a partire dalle sensazioni, emozioni, pensieri, ma insieme alle sensazioni, emozioni, pensieri come oggetti di consapevolezza.
Mindfulness, Flessibilità e Autoregolazione
Come abbiamo visto, pur avvalendosi di diverse definizioni, il termine ‘consapevolezza’ esprime essenzialmente il conoscere attraverso un contatto diretto con l’esperienza, ed evoca la libertà della mente dalle limitazioni di quei meccanismi percettivi, emotivi e cognitivi che, forgiati da apprendimenti passati, possono condizionare le risposte alle esperienze presenti.
Da un certo punto di vista, un bagaglio di vecchi apprendimenti è molto utile perché permette alla persona di progredire nella vita e la preserva dalla necessità di re-imparare iterativamente ciò che già conosce. Se non potessimo avvalerci di apprendimenti passati, non saremmo in grado di estendere le nostre conoscenze e progredire, nemmeno nelle attività elementari quotidiane. Quando però un tale insieme di modelli diventa il filtro della nostra relazione con la realtà il rischio più grande è che questo ci sembri sufficiente a definire la nostra identità, creando per noi un mondo ristretto e rigido a cui affidare, con cieca fiducia, il nostro naturale bisogno di felicità. E’ così che tipicamente generiamo sofferenza.
La conseguenza di questo ‘non vivere’ è restare prigionieri di un mondo completamente soggettivo, fatto di restrizioni e distorsioni che, sovrapposto alla realtà delle cose, guida risposte e comportamenti come farebbe una legge universale.
Nel libro “Il Programma Mindfulness”, Bob Stahl ed Elisha Goldstein spiegano in modo semplice in cosa consista la nostra attitudine a seguire schemi comportamentali abituali, e sottolineano che uno dei motivi più importanti per praticare la mindfulness è che ci consente di comprendere cosa lavora “dietro le quinte”, alimentando e dirigendo i nostri comportamenti. La pratica è particolarmente di aiuto quando fa luce su schemi di vita che non sono al servizio della nostra salute e del nostro benessere, o della qualità dei nostri rapporti interpersonali. Gli esseri umani sono tendenzialmente creature abitudinarie e ciò è funzionale alla capacità appresa di soddisfare i propri bisogni, nonché di svolgere le attività quotidiane in modo efficiente. Ma l’abitudine di affidarsi a questa ripetitività finisce per indurci a funzionare con il cosiddetto “pilota automatico”, facendo di questi schemi dei veri e propri binari su cui muoverci senza possibilità di scelta, e senza sapere cosa stia guidando le nostre azioni. Nel libro troviamo un esempio molto chiaro, una bella metafora del vivere intrappolati negli schemi di comportamento e della perdita di libertà che ciò può comportare. Dopo aver sofferto di artrite ad un ginocchio per diversi anni ed aver cominciato a zoppicare a causa di ciò, un anziano signore si fece applicare una protesi. Dopo una lunga convalescenza si ristabilì perfettamente, ma zoppicare era diventata una abitudine talmente consilidata, che continuò a farlo a lungo anche dopo la guarigione, senza minimamente accorgersene. Questo esempio chiarisce molto bene il ruolo che possiamo avere nella costruzione e nel consolidamento dei nostri stessi limiti.
Come dicono gli autori del libro, senza la mindfulness possiamo somigliare a delle mucche in un recinto elettrificato: all’inizio i bovini vanno ad urtare la recinzione e prendono la scossa. Poi con l’esperienza apprendono a non avvicinarsi nemmeno più al recinto. A quel punto la corrente si può staccare e loro resteranno prigionieri, pur avendo la libertà a portata di mano. Quanto ci risulta familiare tutto ciò?
La pratica di consapevolezza invita a sciogliere tali vincoli cercandone indizi nel corpo, l’unico luogo dove in ogni momento ospitiamo la nostra esperienza di vita. Le manifestazioni del corpo sono fatte di innumerevoli stimoli che spesso tendiamo ad ignorare per “vivere nella mente”, stimoli che frettolosamente cataloghiamo come non importanti, a meno che non siano in grado di colpire prepotentemente la nostra attenzione. L’invito a tornare nel corpo non suggerisce di annullare l’attività mentale o distaccarcene, ma piuttosto di integrarne le componenti in quella unità viva, sempre disponibile, sempre diversa, che si svela a noi come l’esperienza del momento. L’integrazione è fondata sulla capacità umana di incontrare, riconoscere e accogliere la condizione del corpo e la natura della mente, di familiarizzare con i suoi pattern e di vederne gli effetti, in una intimità che può regalare chiarezza e nuove possibilità di scelta.
Anche sapendo che siamo esseri condizionati da modelli appresi, potremmo ancora chiederci perché mai dovremmo sciogliere i vincoli dei nostri meccanismi di base, se è così che da sempre siamo addestrati a funzionare. Cosa può succedere in concreto se non ce ne occupiamo?
Rispondere è semplice ma non facile: molte evidenze, consolidate nel tempo da insegnamenti e ricerche, confermano che una componente significativa della sofferenza umana deriva dal modo in cui rispondiamo alla realtà nelle sue manifestazioni quotidiane. Tuttavia, pur sapendo in generale che una visione condizionata determina con grande probabilità risposte comportamentali non appropriate, possiamo trovare davvero difficile, soprattutto nei momenti di maggiore coinvolgimento emotivo, aprirci alla possibilità che la nostra visione delle cose sia ristretta o distorta, e che la risposta comportamentale del momento possa essere dettata da uno schema consolidato nel tempo piuttosto che da una libera scelta.
Daniel Siegel, nel libro “Mindfulness e Cervello”, si riferisce alla consapevolezza come al mozzo della mente, che ci consente di essere intenzionalmente ricettivi all’esperienza nella sua pienezza, compreso tutto ciò che attraversa la mente momento per momento. Questa attitudine inclusiva e accettante è in grado di predisporre l’individuo ad una grande flessibilità, e può portarlo con la pratica a riconoscere che i suoi abituali schemi di adattamento e reazione non sono che una possibilità nella moltitudine dei modi in cui può relazionarsi all’esperienza.
Questa ricettività, conclude Siegel, è una abilità della mente che, se intenzionalmente coltivata, può diventare un tratto, ed è in grado di indebolire le influenze automatiche dei cosiddetti processi “top-down” sull’esperienza del presente.
I Sistemi di Elaborazione dell’Esperienza: Top-Down e Bottom-Up
Quando parliamo di elaborazione top-down, ci riferiamo a quanto chiariscono Suzanne C. Parker e colleghi1 e cioè ai meccanismi percettivi, ai processi emozionali e cognitivi appresi dal passato, che agiscono come filtri dell’esperienza, creando restrizioni, categorizzazioni e modi di sentire che possono generare vincoli anche molto rigidi sul modo in cui l’individuo fa esperienza del momento presente. L’elaborazione bottom-up nasce invece da un contatto più diretto con gli stimoli, interni ed esterni, che compongono l’esperienza. Questo secondo approccio, proprio perché tendenzialmente privo di costruzioni cognitive sull’esperienza, può sciogliere l’influenza esercitata da quelle strutture limitanti che includono risposte emotive incastonate nelle abitudini, e forgiate dalle esperienze vissute in passato.
Tali influenze top-down si traducono spesso in una reale incapacità di cogliere dettagli dell’esperienza che possono essere significativi, come le parole che un’altra persona ci sta dicendo, e che magari non sentiamo perché siamo persi in anticipazioni o erronee interpretazioni di segnali emotivi, il tutto costruito attraverso un’incessante narrativa interna che distorce e confonde la capacità umana di vedere chiaramente.
In un certo senso, per semplificare ulteriormente, potremmo dire che il corpo ospita continuamente l’esperienza del momento e la mente la colora, la definisce e le assegna un significato, creando da essa “il nostro mondo”, ricco di apprendimenti passati, ma soggettivo, condizionato e in una certa misura limitato.
E’ in effetti limitata anche la nostra esperienza, quella che siamo soliti definire “la realtà”, basti pensare che le stesse strutture sensoriali che ci mettono in contatto con il mondo non sono caratteristiche universali di tutti gli esseri viventi, ma variano di specie in specie. Le nostre strutture sensoriali, oltre ad essere diverse da quelle di altri animali, ci permettono di cogliere una gamma piuttosto ristretta di stimoli visivi e sonori rispetto a quelli che esistono e sono disponibili alla percezione. Possiamo dunque comprendere perché la definizione di realtà sia un tema centrale nella nostra vita e quanto il suo significato possa essere frainteso.
Sappiamo bene che non vediamo la realtà come la inquadrerebbe una telecamera. A partire dall’esperienza già fisicamente limitata, intervengono le altre fasi del processo percettivo a determinare la soggettività di ciò che attraversa le porte dei sensi. La percezione implica infatti il riconoscimento e l’interpretazione degli stimoli che i nostri sensi registrano. Se viziata da condizionamenti, la percezione può distorcere la visione delle cose e veicolare anche risposte non salutari.
Ancora Daniel Siegel, citando Enger, Fries e Singer (2001) ci dice che l’elaborazione degli stimoli è controllata da influenze top-down che creano continue previsioni sugli eventi al loro sorgere, consolidando gli schemi automatici che guidano molte delle nostre azioni.
Siamo sottoposti a queste influenze praticamente in ogni momento della nostra giornata e, senza accorgercene, possiamo diventare schiavi di un mondo di credenze e modelli consolidati attraverso le esperienze precedenti, e che inconsapevolmente usiamo per definire la vita, cristallizzandola attraverso giudizi e categorizzazioni di ogni esperienza che facciamo. Non è un caso però che esistano in noi queste influenze così forti, e la loro presenza non è il frutto di una anomalia o di un “errore di natura”. Al contrario, questi processi hanno avuto un grande valore per la nostra sopravvivenza, nella misura in cui valutazioni immediate hanno condotto a comportamenti funzionali alla sopravvivenza dell’organismo o della specie. Il motivo per cui i nostri schemi abituali sono tipicamente molto forti è che sono fatti di risposte che hanno funzionato a lungo per noi, e probabilmente ci hanno aiutato in molte occasioni. Che le azioni risultanti siano salutari o meno, ciò che muove un comportamento automatico dettato da uno schema abituale è sempre il tentativo di valutare velocemente e rispondere in modo adattivo ad una situazione che genera nell’individuo una qualche richiesta.
Una Convergenza di Prospettive tra Scienza e Ricerca Interiore
Se da un lato il nostro bagaglio di modelli e categorie preesistenti ci è indispensabile per non dover riapprendere continuamente cose gia apprese con il rischio di commettere sempre gli stessi errori, dall’altro, come Daniel Siegel sottolinea, il nostro cervello, nel suo normale processo di apprendimento, somma le informazioni che ha, crea delle generalizzazioni a partire da campioni limitati e avvia comportamenti sulla base di dati filtrati dai vari modelli mentali. E nell’incontrare l’esperienza, il cervello cerca continuamente di trovare somiglianze o differenze, di trarre conclusioni ed agire. Queste influenze top-down assumono anche connotazioni meno astratte, e possono presentarsi sotto forma di reazioni emotive automatiche, con annesse risposte corporee, sempre derivanti da precedenti apprendimenti, che entrano in gioco a causa di una similitudine, probabilmente parziale, con l’esperienza del momento.
I processi top-down possono farci apparire identiche anche situazioni profondamente diverse, nascondendo i dettagli e costringendoci a relazionarci con modelli sfocati, cristallizzati e incompleti piuttosto che con l’intero universo che si svela nell’esperienza del momento. Per questo può aver senso domandarci cosa stiamo realmente perdendo della nostra vita se ci affidiamo ad una visione di questo tipo, e quanto ciò possa contribuire alle piccole e grandi sofferenze della quotidianità. Una significativa discrepanza può essere immediatamente evidente ad un occhio attento: in una realtà che in ogni momento si manifesta attraverso condizioni impermanenti, come può un modello cristallizzato, consolidato, proveniente dal passato, da una dimensione che non esiste piu ed è ormai solo un concetto, aderire perfettamente a qualcosa di reale? Cosa può esserci di vivo e dinamico in uno schema prestabilito? La risposta più naturale è che, se oltre ad usare il modello come sorgente di utili informazioni apprese, attribuiamo ad esso la dignità di realtà, la sua rigidità non potrà che impedirci di comprendere, facendoci perdere la parte più preziosa dell’esperienza: il suo carattere vivo e dinamico.
Tutto ciò suggerisce che non sia l’esistenza dei modelli ad influire cosi pesantemente nella qualità della nostra vita ma piuttosto il fatto che tendiamo a non riconoscerli per ciò che sono. Questo “non riconoscere” getta le basi dell’identificazione, del definire se stessi e il mondo attraverso i contenuti della mente, del credere ciecamente che le convinzioni e i giudizi con cui incontriamo l’esperienza siano verità assolute.
Lo chiarisce perfettamente il maestro zen Ezra Bayda nel libro “Le Radici della Felicità”, attraverso la metafora di due amici che fanno colazione insieme: nell’imburrare il pane, uno dei due amici dice all’altro: “Hai mai notato che quando un toast finisce sul pavimento cade sempre dalla parte imburrata?”. L’altro risponde che non crede che ciò sia vero. Allora il primo lascia cadere il toast, ma questo atterra dalla parte non imburrata. Allora il secondo esclama: “Hai visto? Non sempre accade”. E il primo con convinzione risponde: “No, so cosa è successo, ho imburrato la parte sbagliata!”.
Come Ezra Bayda sottolinea, ciò può sembrare sciocco, ma è veramente più sciocco dei pensieri più seri a cui spesso siamo disposti a credere con tutto il cuore? Uno dei più grandi ostacoli alla felicità è l’essere identificati con la mente proliferante, una mente che crede ciecamente a ciò che dice, che tanto spesso si lamenta del passato e si preoccupa per il futuro, perdendo irrimediablmente il presente, che a malapena scorge tra un condizionamento e l’altro.
L’autore prosegue chiarendo che ciò che percepiamo è determinato in larga misura da ciò a cui stiamo credendo. Questo vivere “nella testa”, fertile terreno di giudizi, paure e convinzioni limitanti, è in grado di creare un vero e proprio restringimento auto-centrato con cui quotidianamente generiamo sofferenza. Il libro spiega anche che i giudizi, le convinzioni e gli stati mentali con cui inconsapevolmente diamo forma alla nostra esperienza sono spesso al lavoro in modo sotterraneo, come se fossero le componenti di un sistema operativo, attive in background e continuamente all’opera dietro le scene. La nostra inclinazione a credere ciecamente alle nostre convinzioni è il nutrimento di base per rafforzare i filtri con cui incontriamo la realtà, e per solidificare le risposte emotive e comportamentali che vengono conseguentemente generate.
Nemmeno su questo punto Ezra Bayda lascia spazio ad equivoci: per smettere di alimentare questi processi consolidati ed automatici è necessario vedere giudizi e convinzioni per ciò che sono (pensieri) e sentire fisicamente l’esperienza delle relative emozioni nel corpo.
Anche l’invito di Ezra Bayda a coltivare la capacità di sentire l’esperienza dell’emozione nel corpo, senza alimentarla con i contenuti della mente, sembra suggerire la necessità di privilegiare l’elaborazione bottom-up degli stimoli, esterni o interni, di cui l’esperienza si compone.
Uno degli ostacoli principali alla coltivazione e al potenziamento della capacità interocettiva sembra essere quell’incessante narrativa interna che “sottotitola” la realtà e, se non riconosciuta, può distorcere e confondere la capacità umana di vedere con chiarezza. Si tratta di una sorta di problem-solving contiunuo, che ha solide radici nei nostri processi evolutivi, per proteggerci e renderci progressivamente più potenti. Ma è anche un processo che, nella crescente complessità che siamo chiamati a gestire nella nostra vita, può alimentare emozioni e risposte comportamentali, aggiungendo all’esperienza diretta una componente “artificiale” che può sostituirsi alla realtà stessa, quando la persona ripone la sua fiducia nei contenuti della narrazione.
In un passo del suo libro “Zen Quotidiano” che riportiamo qui di seguito, la maestra zen Charlotte Joko Beck ci mostra un chiaro esempio di tutto ciò: “Stiamo remando sul lago nella nostra barchetta. C’è nebbia; non spessa, ma foschia. All’improvviso, dalla nebbia sbuca un’altra barca che si dirige verso di noi e… crash! Abbiamo una scarica di rabbia: Cosa fa quell’idiota? Ho appena finito di dipingere la barca, e mi viene addosso! Quand’ecco, ci accorgiamo che la barca è vuota. Cosa succede alla nostra rabbia? Si affloscia. Pazienza, darò un’altra mano di vernice. Ma, se sulla barca ci fosse stato qualcuno, come avremmo reagito?
Sapete benissimo come… I nostri scontri con la vita, con gli altri, con le situazioni sono paragonabili al venire urtati da una barca vuota. Ma la nostra percezione è diversa: sentiamo che la barca che ci è venuta addosso è guidata da qualcuno che ci vuole massacrare apposta. Che cosa significa la mia affermazione che tutti gli eventi sono collisioni con una barca vuota?”
Il modo in cui percepiamo le “barche vuote” che ci urtano durante la giornata sembra essere davvero determinante per il nostro modo di sentire e di rispondere, e può influire in un modo incredibilmente significativo sulla qualità del nostro vivere. E chi riempie le nostre barche vuote se non i nostri processi di elaborazione top-down?
Christina Feldman2, insegnante di Dharma della tradizione buddhista Theravada e co-fondatrice del Gaya House Retreat Center in Inghilterra, pone l’accento sulla differenza tra il momento presente e le storie che la mente crea e per definirlo, in una costruzione fatta di percezioni soggettive, filtri e condizionamenti, con il colore dello stato d’animo corrente. La consapevolezza ha la preziosa funzione di illuminare il momento presente, di permettere alla vita di risvegliarsi in noi sotto forma di sensazioni, colori, forme, suoni. Si tratta di una qualità esclusivamente umana, che ci permette di riconoscere i pattern con cui incontriamo le situazioni.
2 I contenuti citati si riferiscono ad un Intensivo di Meditazione Vipassana che Christina Feldman ha condotto a Roma nel febbraio 2016 presso l’associazione A.me.co (Associazione Meditazione di Consapevolezza).
E’ un invito esplicito a prendere rifugio nella verità del momento presente piuttosto che nei contenuti della mente, lo stesso gentile invito che conferma molte evidenze scientifiche: coltivare un calmo dimorare nel momento, che è ben diverso dal cercare di produrre uno stato di calma. Quest’ultimo infatti è uno stato mentale che richiede l’assenza di agitazione, e viene meno non appena l’agitazione sopraggiunge. Il calmo dimorare non ha in sé il carattere transitorio degli stati mentali e per emergere non ha bisogno che qualcosa scompaia dalla scena. Nel mezzo della bufera di una condizione difficile può esserci il calmo dimorare, una capacità inclusiva della mente e del cuore, che sposta l’asse della conoscenza dall’oggetto conosciuto al conoscere, che riflette la realtà delle cose ed entra in una intimità profonda con il modo in cui funzioniamo, con gli schemi a cui ci affidiamo, e crea lo spazio per contenerli, all’interno di una moltitudine di possibilità. Illuminati dalla consapevolezza, visti e rivisti con pazienza e curiosità, gli schemi e le convinzioni possono perdere tutta la solidità che è stata a lungo nutrita da una fiducia incondizionata nei loro contenuti.
Christina Feldman ci dice ancora che le strutture di pensiero riflettono lo stato d’animo prevalente. E’ ad esempio poco probabile che stati di avversione producano spontaneamente pensieri gentili; è possibile invece che si crei un circolo vizioso di pensieri e stati che si alimentano vicendevolmente. Le strutture di pensiero avversive hanno forti impatti sul corpo, e ciò non può che rafforzare lo stato d’animo, in un meccanismo che, con il tempo e la ripetizione, solidifica gli schemi mentali associati. A tutto questo processo, fondato sull’identificazione dell’individuo con i contenuti dell’esperienza, si aggiunge qualcosa di più tossico: la forma che prende l’immagine di se stessi. Quello che la persona conosce come il suo mondo e che spesso assume sia la realtà è infatti il fattore risultante di tali meccanismi. Per uscire dal circolo vizioso è necessario coltivare la capacità di discernimento, che, a differenza del giudizio, sorge da una vera comprensione della realtà e distingue, tra le possibili risposte, quelle che generano sofferenza da quelle che la alleviano. Coltivare il discernimento significa prima di tutto mettere i nostri modelli, schemi, stati mentali abituali sotto la lente, cercandone indizi nel corpo. Nulla nella nostra esperienza ha un’esistenza indipendente, e se qualcosa persiste o appare solida, il motivo è che viene alimentata, rinforzata e ripetutamente confermata.
Tornando a quanto spiega Daniel Siegel, le parti della memoria in cui gli eventi passati sono conservati, insieme ai nostri modi abituali di farvi fronte, formano letteralmente nel cervello una impalcatura di connettività neurale che esiste per organizzare la nostra vita. Questo insieme di ricordi, aspettative, temi narrativi di vita e risposte emotive automatiche ci porta a conformarci pienamente alla sua struttura, capace di filtrare l’esperienza dando forma alle nostre percezioni. Siegel chiarisce che noi usiamo apprendimenti passati come filtro delle sensazioni presenti allo scopo di rendere il futuro prevedibile, seguendo l’inclinazione naturale a risolvere l’incertezza. Ma il presente è tutto ciò che realmente esiste, e se lo perdiamo in questo modo, perdiamo tutto.
La Prospettiva delle Neuroscienze
Le neuroscienze mostrano da tempo uno spiccato interesse a trovare le basi neurali delle “impalcature” che organizzano la nostra vita. In un articolo del 2007, Farb e colleghi hanno dettagliato uno studio sulla distinzione tra le due diverse prospettive di cui l’essere umano può avvalersi per percepire se stesso: il “sé narrativo” e il “sé esperienziale”. Il primo è forgiato da una narrativa autobiografica e risulta fortemente influenzato dai processi top-down. Il sé narrativo privilegia infatti l’elaborazione cognitiva degli eventi rispetto all’esperienza sensoriale, e come tale è associato al pensiero ruminante autocentrato. Il sé esperienziale invece rappresenta la prospettiva opposta, quella del contatto diretto con l’esperienza del momento. E’ piuttosto intuitivo ritenere che, quando coltiviamo la consapevolezza, stiamo privilegiando la prospettiva del sé esperienziale, ed è altrettanto intuitivo notare che la scelta dell’una o dell’altra prospettiva dipenda dal modo in cui siamo capaci di prestare attenzione. L’attenzione è un complesso insieme di processi che dispongono di capacità limitate: nell’atto di prestare intenzionalmente la nostra attenzione a qualcosa, stiamo quindi implicitamente alterando il potere dominante delle influenze automatiche top-down.
Dallo studio di Farb e colleghi, eseguito mediante risonanza magnetica funzionale su un gruppo di partecipanti ad un training di mindfulness di 8 settimane rispetto ad un gruppo di controllo, è emerso che, prestando semplicemente attenzione all’esperienza del momento, si riduce praticamente per tutti l’attivazione delle aree cerebrali connesse al sé narrativo, quindi alla ruminazione egocentrata sull’esperienza. Ancora più rilevante è quanto è stato osservato in coloro che hanno completato un programma di mindfulness di 8 settimane: oltre ad una riduzione ancora più evidente dell’attività narrativa, la pratica sembra determinare una maggiore attivazione delle aree viscero-somatiche insieme ad una dissociazione di queste dalle regioni prefrontali mediali, aree che nei novizi apparivano strettamente correlate. Tutto ciò suggerisce una dissociazione a livello neurale del sé esperienziale dal sé narrativo che si può coltivare con la pratica di consapevolezza. Sembrerebbe quindi piuttosto naturale correlare un training di mindfulness di almeno due mesi ad un differente approccio all’esperienza del momento, con una riduzione significativa e consolidata dei processi di elaborazione auto-referenziale degli eventi. Una tale differenza può essere molto rilevante per la qualità della vita, come abbiamo ampiamente descritto nei paragrafi precedenti.
Uno studio più recente, sempre condotto da Farb e colleghi (2010) ha messo in luce, attraverso le scansioni con la risonanza magnetica funzionale, i potenziali effetti di un training di mindfulness sull’elaborazione della tristezza (evocata e indotta durante lo studio). E’ emerso che, nonostante l’intensità della tristezza percepita fosse la stessa per il gruppo che aveva partecipato ad un programma di mindfulness di 8 settimane e per il gruppo di controllo, le risposte neurali erano distinte, le aree cerebrali coinvolte nell’esperienza erano sostanzialmente diverse nei due gruppi. Nei partecipanti sono risultate significativamente più attive le regioni coinvolte nella elaborazione diretta della tristezza e della sua rappresentazione nel corpo, rispetto a quelle che sottendono alla ruminazione mentale sull’esperienza di questa emozione. Il maggiore coinvolgimento somatico rilevato nel gruppo dei partecipanti risulta associato ad un ridotto livello di depressione. Questo studio sembra quindi fornire una ulteriore conferma di come la mindfulness possa ridurre le influenze dei nostri meccanismi top-down e ci permetta letteralmente di imparare ad essere “meno infelici” indipendentemente dalle condizioni che attraversiamo.
Ci sembra importante segnalare anche uno studio dell’Università di Toronto (Teper, Segal, Inzlicht 2013) che ha recentemente approfondito i correlati neurali della regolazione emotiva ad opera della mindfulness, come conseguenza indiretta della sua influenza sulle aree cerebrali deputate al controllo esecutivo. Si tratta di un punto di vista di un certo rilievo, considerando che i meccanismi interni degli effetti della mindfulness sulla regolazione emotiva rimangono ancora per certi aspetti non completamente chiari, nonostante i benefici psicologici di questa pratica siano ben documentati in letteratura. In questo articolo viene proposto il ruolo delle funzioni esecutive come perno centrale di una nuova correlazione tra la mindfulness e la capacità di regolare le emozioni.
Il controllo esecutivo è l’insieme di capacità che supportano molte attività quotidiane, come la pianificazione, il problem solving, la flessibilità cognitiva, la gestione delle proprie risorse per raggiungere un obiettivo ecc. Possiamo dire che le funzioni esecutive siano funzioni di controllo e di comando che sottendono praticamente a tutte le nostre capacità cognitive.
La pratica della consapevolezza, con la sua capacità di riflettere l’intera esperienza come farebbe uno specchio e l’attitudine di accogliere senza giudizio ciò la che la realtà del momento svela, può allenare l’individuo a riconoscere i propri stati emotivi al loro sorgere e a scegliere di non alimentarli, prevenendo l’intensificarsi delle reazioni e delle relative risposte comportamentali. Questo studio presenta la pratica di consapevolezza come una strategia di regolazione emotiva focalizzata sul dare nuova forma alla relazione della persona con le emozioni, piuttosto che sul tentativo di cambiare i contenuti dell’esperienza.
La presenza è l’ingrediente essenziale della sintonizzazione con l’esperienza e l’accettazione mitiga la ruminazione intorno agli eventi. Ciò offre alla persona la flessibilità necessaria per accogliere le componenti somatiche dell’esperienza emotiva riducendo le abituali reazioni cognitive che possono alimentare l’emozione e amplificarne l’effetto.
La relazione più immediata della mindfulness con il controllo cognitivo si fonda sul fatto che la pratica di consapevolezza invita la persona a monitorare l’esperienza cosciente e a rifocalizzare intenzionalmente l’attenzione sul momento presente ogni volta che si accorge di una distrazione. La coltivazione della capacità umana di sintonizzazione con l’esperienza interna permette alle persone di essere più vicine alle tipiche istanze in cui il controllo esecutivo è necessario: la mindfulness infatti promuove il monitoring metacognitivo e radica l’attenzione sugli aspetti sensoriali dell’esperienza.
L’articolo suggerisce ancora che, quando le persone si allenano a sintonizzarsi con il momento presente e sono aperte ad accettare le loro emozioni, possono cogliere in un modo più preciso e ricettivo i segnali affettivi transitori e offrire a se stesse nuove opportunità per decidere, scegliere, laddove le abitudini, gli schemi e le reazioni automatiche inibirebbero invece ogni forma di libertà. Questo è il senso che lo studio attribuisce alla relazione tra mindfulness, controllo esecutivo e regolazione emotiva, mantenendo comunque il presupposto che i meccanismi interni del legame tra questa regolazione e la pratica non sono stati ancora pienamente compresi.
In conclusione, l’articolo sottolinea che le nuove prospettive sullo studio del controllo esecutivo stanno riconoscendo alla componente emotiva dell’esperienza una funzione essenziale, che può aiutare a far luce sul modo in cui la mindfulness influisce sulla capacità umana di regolare le emozioni. Non attraverso l’inibizione o l’evitamento, ma con una ben coltivata abilità di sentire, riconoscere ed accogliere le emozioni al loro sorgere, possiamo essere maggiormente in grado di mobilitare le risorse necessarie ad eleborarle, riducendo al minimo le influenze degli automatismi e gli effetti negativi dell’identificazione con i loro contenuti.
Una Strategia di Regolazione Top-Down e Bottom-Up
Diversi studi attribuiscono alla mindfulness le caratteristiche di una vera e propria strategia di regolazione emotiva. Può avere senso chiedersi di che tipo di strategia si tratti, se ad esempio i suoi effetti influiscano più significativamente nella attività delle aree limbiche che generano l’emozione, o sulla risposta corticale, in particolare sulla capacità di valutazione cognitiva di uno stimolo emotivamente saliente.
Tenendo conto del fatto che il cervello organizza l’elaborazione dell’esperienza attraverso le due diverse prospettive top-down e bottom-up, potrermmo chiederci se la mindfulness sia più identificabile con una strategia di regolazione emotiva top-down o bottom-up. Entrambe le ipotesi avrebbero senso, per questo motivo la discussione in ambito neuroscientifico è ancora aperta. La maggior parte degli studi neuroscientifici che abbiamo descritto finora sembra protendere verso l’ipotesi di una strategia top-down. Come vedremo, esistono altri studi che sostengono invece più marcatamente la seconda ipotesi. E’ nostra intenzione comprendere i criteri attualmente disponibili per integrare queste due possibilità senza dover scegliere fra l’una e l’altra, tenendo conto dei limiti e delle incongruenze dichiaratamente espresse nella maggior parte degli studi. Pur sapendo che al momento le domande che ci poniamo sono più numerose delle risposte su cui possiamo contare, ci proponiamo di utilizzare le informazioni che abbiamo a disposizione come discriminanti per suggerire in questo ambito una presa di posizione libera e consapevole, fondata sull’idea che queste due ipotesi non siano in realtà mutuamente esclusive.
La definizione di mindfulness come strategia di regolazione emotiva top-down o bottom-up è il tema centrale di uno studio condotto da Alberto Chiesa e colleghi nel 2013, che confronta ipotesi differenti, presenta una serie di studi più o meno recenti che sostengono una delle due ipotesi o l’altra, e, come vedremo, propone delle conclusioni interessanti che però per essere confermate richiederanno ulteriori approfondimenti futuri.
Nel tracciare e riassumere i risultati delle ricerche attualmente disponibili sulla connessione tra pratica di consapevolezza e gestione delle emozioni, Alberto Chiesa e colleghi delineano due possibili concezioni della mindfulness come strategia di regolazione:
· La prima concezione, orientata ad associare la mindfulness ad un processo top- down, fa riferimento alla capacità della pratica di reclutare le regioni corticali prefrontali per modulare l’attivazione limbica in presenza di uno stimolo emotivamente saliente. Tutto ciò può avvenire grazie al monitoring cognitivo, al miglioramento del controllo esecutivo e ad una maggiore consapevolezza sensoriale, promossa probabilmente dalla riduzione della narrazione auto- referenziale dell’esperienza.
· la seconda concezione, orientata ad associare la mindfulness ad un processo bottom-up, fa leva sulla capacità di incontrare l’esperienza senza la necessità di una rivalutazione cognitiva degli stimoli emotivi salienti. Gli studi elencati in questo ambito fanno riferimento ad una riduzione dell’attivazione delle regioni limbiche del cervello in risposta a stimoli emotivamente salienti, senza la necessità di una significativa attivazione concomitante delle aree corticali prefrontali. Ciò suggerisce che la mindfulness possa promuovere una regolazione emotiva che non necessita di alcun attivo tentativo di mitigare la risposta agli eventi, ma sia semplicemente il frutto di una tendenza naturale a ridurre l’attivazione della parte piu antica del nostro cervello, deputata a vegliare sulla nostra sopravvivenza anche quando questa non è in pericolo.
A supporto della prima ipotesi troviamo gran parte degli studi che abbiamo descritto nel paragrafo precedente, in particolare quelli di Farb e colleghi, che correlano un training di mindfulness come l’MBSR ad un miglioramento della capacità interocettiva associandola ad una riduzione della elaborazione cognitiva dell’esperienza. Un ruolo essenziale nel delineare questa ipotesi è attribuito allo sviluppo di abilità metacognitive, capaci, anche in tempi relativamente brevi come la durata di un MBSR, di restiituire alla mente una visione meno identificata degli stimoli emotivamente carichi.
Sostengono invece l’ipotesi di considerare la mindfulness una strategia bottom-up alcuni studi, sempre citati nell’articolo di Alberto Chiesa, focalizzati sulla relazione tra la mindfulness e il dolore, in praticanti con molte ore di meditazione alle spalle rispetto a gruppi di novizi. Ci riferiamo ai lavori di Gard e colleghi (2012), di Grant, Courtemanche e Rainville (2011) e di Taylor e colleghi (2011).
E’ emerso che i non meditanti tendenzialmente ricorrono all’attivazione di aree prefrontali per regolare la percezione del dolore, mentre nei praticanti esperti non non si rilevano significativi interventi di valutazione cognitiva dell’esperienza di dolore. Attraverso una maggiore attivazione delle aree legate all’elaborazione diretta dell’esperienza, risulta ridotto lo stress associato all’esperienza di dolore.
Le conclusioni dello studio di Alberto Chiesa, dopo il confronto tra le due ipotesi di base attraverso i risultati disponibili in ambito neuroscientifico danno forma, con poche eccezioni, alla possiblità che i correlati neurali che consideriamo associati alla regolazione emotiva possano variare significativamente in base all’esperienza dei meditanti. Infatti, un considerevole numero di studi sugli effetti di programmi di mindfulness relativamente brevi sembra supportare l’ipotesi che la pratica di consapevolezza sia assimilabile ad una strategia di regolazione top-down, mentre i molti studi sui meditanti esperti sembrano convergere sull’ipotesi bottom-up. Ciò avvalorerebbe l’ipotesi che la mindfulness possa essere una strategia di regolazione top-down a breve termine e bottom-up a lungo termine.
Conclusioni: Una Questione di Accettazione?
Vogliamo concludere il presente capitolo parlando ancora di accettazione, l’elemento che più di ogni altra cosa rende la pratica della mindfulness diversa da un semplice allenamento dell’attenzione. L’accettazione non è identificabile con l’approvazione né con la rassegnazione al verificarsi di un evento. E’ piuttosto un moto interno di apertura con cui possiamo riconoscere una certa condizione, coltivando la disponibilità ad esserci, ad essere nell’esperienza, conoscendola senza lasciare che il dualismo del giudizio ci separi da essa, aggiungendo ulteriore sofferenza. Potrebbe essere proprio l’accettazione, nei modi diversi che abbiamo di coltivarla e con le fasi diverse che attraversiamo nella pratica, il discriminante che stabisce la doppia natura della regolazione emotiva, top-down e bottom-up attribuita alla mindfulness.
Più voci autorevoli si sono espresse a sostegno di un ruolo attivo dell’accettazione nel determinare le basi neurali delle due strategie di regolazione descritte nel paragrafo precedente. Alcuni fra gli studi che abbiamo descritto contengono riferimenti chiari a questo aspetto, ma forse l’esempio puù evidente è fornito dal lavoro di Lutz, McFarlin, Perlman, Salomon e Davidson (2013). Mediante scansione con risonanza magnetica funzionale, i ricercatori hanno messo a confronto, sull’esperienza del dolore fisico prodotto da una stimolazione, un gruppo di meditanti esperti (più di 10.000 ore di pratica) con un gruppo di novizi.
Praticamente tutti i partecipanti hanno riferito di percepire una sensazione dolorosa di pari intensità, ma il livello di “spiacevolezza” e lo stress connesso alla sensazione di dolore è risultato significamente più basso tra i meditanti esperti. Queste misure percepite hanno trovato una corrispondenza neurale che sembra confermare l’effetto a lungo termine della pratica sulla capacità di accettazione e adattamento a condizioni spiacevoli o dolorose. Risulta infatti da questo studio che, coltivare a lungo una attenzione aperta, inclusiva e curiosa conduce naturalmente ad una riduzione dell’ansia anticipatoria di eventi non desiderati, incrementa il reclutamento delle risorse dell’attenzione durante l’esperienza dolorosa e migliora la capacità di adattamento alla situazione.
Tutto ciò che abbiamo descritto finora, definendo la mindfulness come strategia di regolazione emotiva, sembra evidenziare il discriminante dell’accettazione come fattore essenziale della maturità della pratica. Nei meditanti non esperti la regolazione necessita dell’intervento delle aree corticali prefrontali, suggerendo che all’inizio l’accettazione possa essere coltivata dalla persona attraverso una intenzionale attività della mente assimilabile quasi ad una valutazione cognitiva.
Nei meditanti esperti invece la regolazione sembra diventare una capacità naturale, incastonata nei meccanismi umani di base, senza la necessità di contributi “superiori”. Ciò suggerisce che l’accettazione, come del resto la consapevolezza, quando viene coltivata a lungo, smette di essere l’espressione di una volontà e diventa un modo di essere.
Bianca Pescatori Loredana Vistarini
Centro Italiano Studi Mindfulness
Bibliografia
Daniel Siegel, Mindfulness e Cervello – Cortina Raffaello Editore (2009) Ezra Bayda, Le Radici della Felicità – Ubaldini Editore (2012)
Shauna L. e Carlson L., L’arte e la Scienza della mindfulness , Piccin editore (2012)
Bob Stahl, Elisha Goldstein Il Programma Mindfulness – Essere Felici Edizioni (2013)
Charlotte Joko Beck, Zen Quotidiano. Amore e Lavoro. – Astrolabio Ubaldini (1991)
Handbook of Mindfulness, Theory, Research and Practice – Edited by Kirk Warren Brown, J. David Creswell, and Richard M. Ryan (2015)
Norman A. S. Farb, Zindel V. Segal, Helen Mayberg, Jim Bean, Deborah McKeon, Zainab Fatima, K. Anderson (2007): Attending to the Present: Mindfulness Meditation Reveals Distinct Neural Modes of Self-Reference
Norman A. S. Farb, Adam K. Anderson, Helen Mayberg, Jim Bean, Deborah McKeon, Zindel V. Segal (2010): Minding One’s Emotions: Mindfulness Training Alters the Neural Expression of Sadness
Rimma Teper, Zindel V. Segal, Michael Inzlicht (2013): Inside the Mindful Mind: How Mindfulness Enhances Emotion Regulation Through Improvements in Executive Control
Alberto Chiesa, Alessandro Serretti, Janus Christian Jakobsen (2013): Mindfulness: Top-down or bottom-up emotion regulation strategy?
Tim Gard, Britta K. Hölzel, Alexander T. Sack, Hannes Hempel, Sara W. Lazar, Dieter Vaitl, Ulrich Ott (2011): Pain Attenuation through Mindfulness is Associated with Decreased Cognitive Control and Increased Sensory Processing in the Brain
Grant, J. A., Courtemanche, J., & Rainville, P. (2011) A non-elaborative mental stance and decoupling of executive and pain-related cortices predicts low pain sensitivity in Zen meditators.
Taylor, V. A., Grant, J., Daneault, V., Scavone, G., Breton, E., Roffe-Vidal, S., et al. (2011) Impact of mindfulness on the neural responses to emotional pictures in experienced and beginner meditators.
Antoine Lutz, Daniel R. McFarlin, David M. Perlman, Tim V. Salomons, Richard J. Davidson (2013) Altered anterior insula activation during anticipation and experience of painful stimuli in expert meditators